«In Utero» dei Nirvana compie 25 anni. La sua storia

Il 21 settembre del 1993 usciva il terzo e ultimo album della band di Kurt Cobain. Il dopo «Nevermind» è stato registrato in Minnesota, in un freddo inverno, in mezzo alla neve, nel febbraio di quell'anno

I Nirvana nel 1993. Da sinistra, Dave Grohl, Kurt Cobain e Krist Novoselic
21 Settembre 2018 alle 11:38

Se il 1991 fu un anno oltremodo felice per i Nirvana, altrettanto non si può dire per il torbido 1992. Il mondo intero, a quel punto, bramava un pezzo della creatura di Kurt Cobain, ma il ragazzo nato e cresciuto ad Aberdeen (una cittadina fluviale a circa 170 chilometri da Seattle) fece del suo meglio per concedersi il meno possibile. L'improvviso ed inaspettato boom del loro secondo album «Nevermind» (l'11 gennaio 1992 raggiunse la vetta delle classifiche americane spodestando «Dangerous» di un certo Michael Jackson) in fin dei conti aveva creato un vistoso precedente e adombrato le aspettative artistiche dello stesso Cobain. Finalmente, il 21 settembre del 1993 usciva «In Utero», il terzo e ultimo album della band.

**ODORA COME UN DISCO DI SUCCESSO**

Il dubbio stava cominciando a serpeggiare nella testa di Kurt assieme a tutto il fenomeno, costruito ad arte, del "grunge". Avere aderito alle logiche commerciali della casa discografica Geffen (che pensava in piccolo per i Nirvana, ma intanto aveva cominciato a spingere per radio e su MTV il singolo «Smells Like Teen Spirit») e ancor più all'addomesticamento sonoro messo in pratica da Butch Vig (il produttore di «Nevermind» e futuro batterista dei Garbage), forse non era stata quella gran bella idea per un gruppo che proveniva pur sempre dal misconosciuto e abrasivo «Bleach», debutto uscito nel 1989 su etichetta Sub Pop. Problemi finanziari, da lì in avanti, non ne avrebbero mai più avuti, ma il disco col neonato che nuota in piscina inseguendo una banconota da un dollaro restava pur sempre una concessione appurata all'industria del divertimento. Cobain, giunto a quel punto, l'aveva capito: i Nirvana restavano una band imbattibile quando riuscivano a bilanciare canzoni schizofreniche ad altre dall'anima più beatlesiana. Per una «About the girl» della situazione c'era sempre una «Negative creep» a bilanciare quello sgomento esistenziale. E i fan, quelli della prima ora, non sapevano quale lato del trio adorare di più, visto che si trattava di un'esperienza completa. Una medaglia a due facce. L'estasi e il disagio. La vita, insomma.

**RIGURGITI PUNK-ROCK**

Nel chiacchierato e strombazzato «Nevermind», questa dicotomia alto/basso, amore/odio, ovviamente c'era eccome (basterebbe ascoltare la chitarra alla «And I Love Her» di «Polly» seguita a sua volta dalla distorsione infuocata di «Territorial Pissings»), ma le melodie, tutte solidissime e memorabili, facevano comunque battere il registratore di cassa in ogni Paese del mondo occidentale. Quando l'album stava vendendo l'astronomica cifra di 300mila copie a settimana, Cobain iniziò a spargere propositi (minacce?) a quei magazine musicali che pendavano dalle sue labbra: «"Nevermind", a livello di coerenza, è stato un passo falso. Il nostro terzo album sarà improntato a un'ottica punk-rock con magari qualche dolcetto qua e là». Nella marea di frasi a effetto di Kurt, questa si sarebbe rivelata una delle più sincere.

**ROCKSTAR MAI E POI MAI**

Nel frattempo altri eventi erano pronti a succedersi a un ritmo inarrestabile: una caduta nel tunnel dell'eroina da parte di Cobain, un matrimonio alle Hawaii con la fidanzata Courtney Love e la successiva nascita della loro figlia, Frances Bean, che avrebbe mandato in paranoia qualsiasi giornale statunitense. Apice mediatico di un 1992 stressante e confuso in cui il gruppo suonò poco, ma bene (memorabile il concerto di Reading di fine agosto), quasi fosse in preda a uno straniamento voluto. Come ben sintetizzò il batterista Dave Grohl: «Rinunciammo a dei cachet incredibili pur di non andare in tour con gli U2, i Guns N' Roses o i Pearl Jam. Dicemmo di no ai più grandi dell'epoca. In pratica ci piaceva tenere tra le dita il cerino del rock. E ci piaceva ancora di più vederlo consumarsi sotto il nostro sguardo beffardo». Il 1993, intanto, era alle porte.

**PENSA GLOBALE, AGISCI LOCALE**

Lasciatisi alle spalle dodici mesi complicati, i Nirvana sentirono finalmente l'impellenza di registrare un disco come piaceva a loro: nè troppo naif alla «Bleach», né troppo addomesticato come il successivo bestseller. Volevano un album col quale avrebbero chiesto scusa alla comunità punk locale e globale nella più smaccata logica "glocal" di Seattle, la loro città adottiva. Lo scusarsi per essere diventato benestante e famoso, d'altronde, era un principio etico dal quale Cobain era parecchio ossessionato, nonostante non potesse farci niente. A differenza di Grohl: «Io questi problemi di coscienza, di essermi venduto al sistema, non me li facevo neanche per sbaglio. Quando entrai nei Nirvana erano dieci anni che dormivo sui pavimenti degli squat e giravo il Paese con formazioni underground tipo gli Scream. Al massimo mi beccavo gli sfottò bonari dei miei vecchi compari di Washington D.C.: 'Hey musicista di successo, offrici una birra tu che puoi!'. Kurt, da questo punto di vista, ci soffriva molto di più».

**SALVE, SONO STEVE ALBINI**

Sì, ne soffriva e stavolta tutto doveva essere più puro e incorruttibile fin dal principio. Cobain voleva intitolare il disco «I Hate Myself and I Want To Die» (Mi odio e voglio morire: una risposta di rito che dava a chiunque gli chiedesse come andava col suo stomaco malato), ma la Geffen ne fu, per così dire, inorridita. Poi venne il turno della scelta del produttore. I Nirvana - che avevano già registrato i loro provini con Jack Endino, uno dei profeti, se non il profeta, del Seattle Sound - optarono per Steve Albini, un mezzo misantropo cresciuto nel Montana che aveva salvato il rock a stelle e strisce lavorando a «Surfer Rosa» dei Pixies e a «Pod» delle Breeders, due album pazzeschi, ovviamente adorati dal ragazzo biondo di Aberdeen. A Steve piacquero parecchio i demo messi su nastro da Endino, chiese centomila dollari alla stessa Geffen (che, a malincuore, accettò) e saltò a bordo senza indugi, da vero professionista qual era (e qual è). L'ultima grande avventura del rock, di scena ai Pachyderm Studios di Cannon Falls, era pronta a entrare nel vivo.

**SI VA IN MINNESOTA!**

La neve in quel febbraio del '93 la potevi sentire fin nei polmoni e i ritmi, nella sonnocchiosa Cannon Falls, erano pressappoco monastici: turni di 12 ore al giono, registrazioni rigorosamente ambientali con microfoni piazzati in prossimità degli strumenti, poca televisione alla sera e nessuna interferenza esterna. Nel cuore del "pachiderma" furono ammessi solo Kurt, Krist Novoselic, Dave Grohl, naturalmente Albini, un suo fidato collaboratore, un cuoco e Courtney Love che però - deo gratias - sarebbe arrivata a lavori ormai ultimati. Cobain, ispirato come non mai, sciorinò canzoni da brivido («Serve The Servants», «Heart-Shaped Box», «Rape Me», «Pennyroyal Tea», «Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle» ecc.) e nell'album, ancora senza titolo, si trovava davvero un po' di tutto: dal pop di «Dumb» al rumore di «Milk It» passando per l'elegia di «All Apologies». Lo avrebbe capito anche un sordo che si trattava di un capolavoro partorito nella più fervida cornice degli anni '90.

**UN BATTERISTA PER AMICO**

Albini, interrogato a riguardo, fu sintetico nel sottolineare l'intera performance creativa durata appena un paio di settimane: «Kurt scrisse dei pezzi eccezionali, ma quando hai a disposizione in studio un signor batterista, un ingegnere del suono meticoloso come me è già a metà dell'opera». Dave Grohl, in un raro momento di stanca delle registrazioni, avvicinò l'amico Cobain e lo aiutò a terminare un brano incompleto. Si trattava della vertiginosa e strillatissima «Scentless Apprentice» (ispirata al libro «Il Profumo» dello scrittore tedesco Patrick Süskind) e narra la leggenda che il granitico riff iniziale sia stato partorito proprio da Dave. Uno che - urge ricordarlo - avrebbe poi riempito le arene del terzo millennio alla guida dei suoi Foo Fighters.

**UNA GEMMA CHIAMATA «MARIGOLD»**

Cobain si trovò così bene a fare musica con Grohl che gli fece i complimenti anche per un'altra sua composizione (la melodicissima «Color Pictures of a Marigold») che il musicista originario dell'Ohio aveva già pubblicato - con lo pseudonimo di Late! - su un album misterioso intitolato «Pocket Watch» e uscito a fine '92, in piena Nirvana mania. In appena un'ora ne approntarono una nuova versione prontamente accorciata in «Marigold»: la cantò addirittura Dave mentre Kurt, nel coro, si limitò a fare la voce bassa. Albini propose di metterla nel nuovo disco, ma Grohl preferì fare un deciso passo indietro: «Assolutamente no. Questo che sta nascendo è il mondo privato di Kurt, una visione totalmente sua, quindi niente contributi esterni. «Marigold»? La recupereremo da qualche altra parte.». Andò esattamente così. La canzone sarebbe uscita come "lato B" del CD singolo «Heart-Shaped Box» ed è tuttora adorata sia dai fan dei Nirvana che dei Foo Fighters.


**UN ULTIMO MOMENTO DI SERENITÀ**

A venticinque anni di distanza il leader dei Foos se lo ricorda ancora bene quell'episodio di cameratismo: «Il giorno che incidemmo «Marigold» eravamo quasi alla fine delle registrazioni e, quella sera, feci una battuta a tavola. Parlavo di tutti quei batteristi che, appena prima di essere cacciati dai loro rispettivi gruppi, si erano messi a fare i cantautori...». Tutti risero di gusto, Cobain in testa. A quel punto nessuno aveva voglia di fare grandi progetti, ma solo di godersi una birra e un sandwich in compagnia. Il terzo disco dei Nirvana stava venendo benissimo, una vera bomba che avrebbe oscurato (a livello di critica) il fratello maggiore «Nevermind». Si sarebbe chiamato «Versus, Chorus, Verse» come presa in giro al loro classicissimo modo di comporre. Anzi no. Alla fine venne scelto «In Utero» e la Geffen (a parte un paio di tracce remixate da Scott Litt per le radio) fu costretta a pubblicarlo così come il gruppo gliel'aveva recapitato. Con quel titolo "ginecologico" e quella copertina iconica raffigurante un modello anatomico femminile con tanto d'ali angelicate. Sarebbe uscito il 21 settembre 1993, un martedì come tanti, il giorno in cui Leonard Cohen (uno dei miti assoluti di Kurt) avrebbe compiuto i suoi primi cinquantanove anni. Tutto era ok per "quel piccolo gruppo d'amici". Il rock filava liscio. E il futuro, per la prima volta dopo tanto tempo, appariva più radioso che mai...

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